Viviamo un contesto sociale che si veste con lo scintillante mantello della semplificazione, del miglioramento, del benessere, della sicurezza. Mantello che troppe volte copre una ben diversa realtà, costringendo tutti a compiere un’innumerevole serie di azioni che, di semplice, non hanno nulla.

Qualche esempio: la gestione dei nostri conti bancari, postali, dell’identità telematica e altro, che possiamo svolgere comodamente seduti sul divano di casa, di comodo ha solo la morbidezza del cuscino, che in poco tempo si trasforma nel tappeto di un fachiro.

Per accedere devo prima creare il profilo, cambiare la password di accesso (oddio, dove l’ho scritta?), che deve avere un certo numero di caratteri di ogni tipo, assomigliando a volte ad un’iscrizione in geroglifico. Se va tutto bene, non avremo bisogno di fare il collegamento per il riconoscimento, ma questo capita raramente. Poi assegnare le varie password di controllo, sia per la versione web che per l’utilizzo dell’app, che dovranno essere diverse tra loro (oddio, dove le ho scritte?) (e soprattutto: dove ho scritto la parola a protezione del file dove ho scritto tutte le password?). Comunque ce la facciamo: siamo entrati nel nostro profilo web, che avrà bisogno dell’autenticazione che dovremo fare dall’app, sperando di avere a disposizione: 1) un collegamento internet abbastanza potente e stabile da non far scadere la sessione; 2) una linea telefonica che regga il tempo necessario per ricevere ed inviare l’autorizzazione; 3) il cellulare con abbastanza carica da non lasciarci a piedi a metà delle operazioni, e nel caso sia necessario anche un carica batterie e una presa elettrica nelle vicinanze. Con ciò tutta la comodità del nostro divano scompare, nella pozza di sudore che abbiamo creato ai nostri piedi. Vogliamo parlare delle nostre esperienze presso gli uffici postali o municipali? Oppure del controllo del registro elettronico dei nostri figli? E della gestione di tutte queste cose per i nostri anziani genitori?

Sebbene questa gestione della nostra vita si possa considerare facilitata (nel senso che sì, possiamo fare tutto da casa senza dover chiedere un’ora o due di permesso al lavoro, risparmiamo carburante per gli spostamenti, denaro per il parcheggio e quindi diminuiamo le emissioni) la realtà dei fatti è che, nella maggior parte dei casi, tutto è talmente complicato da aumentare il livello di stress, ridurre le ore di sonno perché abbiamo finito all’una di notte il nostro collegamento, oppure, nella peggiore delle ipotesi, ci rendiamo conto che manca quell’unica carta che dovremo comunque andare a prendere in orario di apertura di un qualsiasi ufficio per concludere la pratica, azzerando ogni possibile beneficio.

Spesso non pensiamo alla complicazione che questa semplificazione attua su lavoratori che sembrerebbero esenti. Penso, ad esempio, ai trasportatori: la semplificazione nella consegna di pacchi, plichi, elettrodomestici, buste della spesa ecc. li costringe all’uso di device quali smartphone o tablet che vengono utilizzati per lo scarico delle merci consegnate dal sistema. Operazioni che nella maggior parte dei casi vengono effettuate mentre si guida, perché le consegne sono monitorate dagli stessi device e questi lavoratori sono sottoposti alla pressione del numero delle consegne da effettuare, con immaginabili rischi per la sicurezza. Ho accolto con grande sollievo la pratica di buonsenso dai corrieri spesso adottata: lasciano i pacchi meno voluminosi all’ingresso, tanti saluti e baci (con rischio di mancata consegna pari quasi a zero, evitando quell’inutile rimbalzo per la consegna non effettuata che ci costringeva al solito permesso di una o due ore per andare a prendere il pacco al deposito…). La crescente digitalizzazione della vita comporta quasi sempre un aumento di oneri in termini di tempo, e soprattutto ci invita a una personale deresponsabilizzazione. Mi torna alla memoria una situazione vista qualche anno fa: presso una palestra, una signora al banco della reception chiedeva il documento per poter scaricare le spese sportive del figlio. Disgraziatamente non aveva sottomano il codice fiscale del marito al quale appoggiare il documento, quindi la receptionist le ha chiesto di tornare un’altra volta, con il codice fiscale, per l’emissione (recentemente questo non avviene più, pagamenti elettronici e modello per la dichiarazione dei redditi online hanno, nella maggior parte dei casi, eliminato questo passaggio. Ciò è sicuramente una semplificazione, peccato però che capita con una certa frequenza che l’Agenzia delle Entrate non recepisca tutti i dati, obbligando quindi l’utente alle vecchie procedure di copia delle ricevute e carico manuale delle informazioni mancanti.) Il risultato, quindi, fu una perdita di tempo per la signora, obbligata ad un ulteriore giro, presumibilmente utilizzando la propria automobile, e una perdita di tempo per la receptionist, che ha quindi dovuto dedicarne altro al ritorno della signora. Soluzione alternativa: al primo accesso la receptionist poteva farsi dare i dati del marito, cercare il CF sul web e concludere velocemente la pratica.

Cosa è mancato? Dal mio punto di vista è mancato un po’ di buonsenso, merce diventata preziosa e quanto mai costosa. Dal Vocabolario Treccani: buonsènso, dal francese bon sens – capacità naturale, istintiva, di giudicare rettamente, soprattutto in vista delle necessità pratiche: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune (Manzoni): dove con «senso comune» Manzoni intende l’opinione della maggioranza in contrasto con la saggezza istintiva dei singoli. Le procedure alle quali dobbiamo sottostare sono così tante da renderci meno sicuri della nostra saggezza istintiva, di fatto creando un girotondo di passaggi e un rimbalzo di responsabilità esclusivamente per rispondere a iter che, molto spesso, di sensato hanno veramente poco.

Il buonsenso dovrebbe aiutarci a riconoscere cosa sia giusto fare da cosa no, dovrebbe farci venire un dubbio e aiutarci a cercare la soluzione migliore, più sicura e che offra le maggiori possibilità di successo e tutela della persona e del processo in tutta la sua interezza. La domanda nascosta è come si possa conciliare la necessità di rallentare i nostri ritmi per poter attingere alle nostre risorse personali, con la sempre maggiore richiesta di velocità, di risposte immediate, istantanee, con la pressante domanda sociale di efficienza. Velocità ed efficienza non sempre vanno a braccetto: troppo spesso, infatti, la risposta veloce non riesce a comprendere tutte le necessità richieste, che quindi non otterranno la giusta risoluzione creando un circolo vizioso di ulteriori istanze, generando il girone infernale spazio-temporale-produttivo nel quale, purtroppo, tutti viaggiamo.

Il buon padre di famiglia sa che chi più spende, meno spende. Regola aurea applicabile in qualsiasi settore. È possibile immaginare uno scenario dove ogni persona ricava, tra i mille impegni, uno spazio temporale da dedicare ad una maggiore presa di consapevolezza del sé, attività questa che, una volta diventata abitudine, potrà influenzare in modo sensibile la vita di tutti i giorni (esattamente come si dedica del tempo all’apprendimento di qualsiasi nuova attività, che sia lavorativa, sportiva, scolastica…: una volta imparato e capito, tutto diventa semplice ed immediato. Inoltre, una possibile interferenza di qualsiasi tipo può essere affrontata con i mezzi adeguati a trovare soluzioni alternative che siano efficaci.)

Cosa fare quindi per non essere sopraffatti dal suddetto girone spazio-temporale-produttivo? Fermarsi. Cercare una connessione con sé stessi, trovare la baia dove la corrente si possa fermare, e poi riprendere il largo con rinnovata lucidità. A volte bastano pochi minuti al giorno, un piccolo spazio personale, la porta del bagno chiusa (lo so, soprattutto quando si hanno figli piccoli questa può diventare una missione impossibile, però dovremmo un po’ tutti smettere di sentirci onnipotenti e assolutamente indispensabili). Ad avere maggiore disponibilità di tempo, può bastare la lettura di un libro che ci obblighi ad una riflessione, al contatto con i propri pensieri, o una passeggiata nel parco senza il cellulare in mano. Ancora meglio è la possibilità di seguire percorsi di introspezione che ci obblighino ad uscire dagli schemi mentali che autodeterminiamo, dai quali crediamo di non poterci sottrarre perché riteniamo imposti dall’esterno.

Chiara Stoppa